L’Agenzia delle Entrate in data 29 dicembre 2020 ha emanato la Circolare n. 34 che si allega.
Si tratta di un importante contributo per chi si occupa di concordati preventivi e accordi di ristrutturazione ex art. 182 bis l.fall.
Nel documento sono infatti affrontate delicate questioni che spesso concretamente si pongono nell’ambito di dette procedure.
Tra esse anche (i) quella della c.d. “finanza esterna” e (ii) quella del “fattore temporale nella dilazione del debito tributario” (più in generale, il tema della lunghezza dell’arco temporale di riferimento dei piani di risanamento aziendale).
1. Sulla c.d. “finanza esterna”.
Nel documento in commento la tematica della c.d. “finanza esterna” appare affrontata in modo alquanto frettolosa e eccessivamente orientata alla esclusiva salvaguardia degli interessi erariali. E non persuade la conclusione secondo cui “i flussi di cassa generati dalla continuità aziendale per quanto non vadano computati, ai fini del raffronto con l’alternativa liquidatoria, nel calcolo della consistenza del patrimonio aziendale esistente alla data di presentazione della domanda di concordato preventivo” non sarebbero “qualificabili come “finanza esterna” in senso tecnico”. Ciò, “in quanto” sarebbero “ricavi riconducibili comunque al patrimonio del debitore e, pertanto, destinati al soddisfacimento dei creditori secondo le regole del concorso, quanto meno nel senso di non alterare l’ordine delle cause di prelazione”.
Tale impostazione, come detto, non convince, o almeno non completamente.
Infatti, nell’ambito dei piani di risanamento, i flussi di cassa generati dalla continuità aziendale possono dipendere sia da fattori già insiti nel patrimonio del debitore alla data di apertura di una procedura, sia da fonti esterne al medesimo patrimonio: si pensi, appunto, ai flussi di cassa che potrebbero derivare da nuovi investimenti operati a seguito dell’immissione di “nuova finanza”.
Invero, a ben vedere, solo nel primo caso potrebbe escludersi la loro qualificazione come “finanza esterna”. Ed in detta ipotesi, degli stessi flussi si dovrebbe tenere conto nella stima dell’avviamento aziendale sussistente alla data di apertura della procedura per le finalità (di tipo comparativo) degli artt. 160 (comma 2) e 182 ter (pure nella “versione” da ultimo emendata con l’entrata in vigore del D.L. 125/2020).
Per tale fattispecie, effettivamente, lo stesso avviamento potrebbe giustamente considerarsi facente parte del patrimonio del debitore ai fini del raffronto con l’alternativa liquidatoria (in caso di previsione di non integrale soddisfazione dei creditori prelatizi); e rispetto al suo valore dovrebbero senz’altro operare le regole del concorso tra creditori ed il dovere di non alterazione dell’ordine delle cause di prelazione.
Nella seconda ipotesi (quella dei flussi di cassa riconducibili a fattori non presenti nel patrimonio del debitore alla data di apertura della procedura), appare invece disincentivante rispetto a possibili iniziative propedeutiche al risanamento aziendale e comunque illogico, e perciò non corretto, non qualificare come “finanza esterna” i flussi della continuità aziendale.
Emblematico appare l’esempio dell’immissione, nell’azienda in crisi, da parte di soci di società a responsabilità limitata o anche di soggetti sovventori totalmente terzi (ma comunque evidentemente interessati al risanamento aziendale), di apporti finanziari da destinarsi all’effettuazione di investimenti che concorrano alla generazione di flussi di cassa futuri.
Supportare la tesi dell’esistenza di un vincolo su detti flussi di cassa futuri alle regole del concorso, oltre che non rispondere alla ratio delle norme in materia, potrebbe significare porsi in contrasto con le finalità dei “sovventori”. Il che, inevitabilmente, potrebbe condurre gli stessi a non a dar luogo agli apporti, con conseguente verosimile pregiudizio anche per i creditori concorsuali. Insomma, un boomerang anche per i creditori privilegiati (tra i quali, il più delle volte, l’Erario).
Sull’argomento quindi sarebbe certamente opportuno che l’Agenzia delle Entrate rivedesse la posizione assunta con la Circolare n.34/2020 in parola.
2. Sul tema del “fattore temporale nella dilazione del debito tributario” (e più in generale, della lunghezza dell’arco temporale di riferimento dei piani di risanamento aziendale)
Invece, più approfondite, e conseguentemente opportune e lungimiranti risultano le considerazioni dell’Agenzia delle Entrate in ordine al “fattore temporale nella dilazione del debito tributario” (e più in generale, in merito alla lunghezza dell’arco temporale di riferimento dei piani di risanamento aziendale).
Il tema è particolarmente delicato perché non sono mancati in prassi e giurisprudenza i sostenitori dell’inammissibilità di proposte concordatarie fondate su piani articolati nel “medio-lungo”.
Si cita al riguardo, ad esempio, la decisione del Tribunale di Como ( Trib. Como 15868 – pubb. 04/10/2016 su il www.ilcaso.it ) secondo cui “Il termine di adempimento della proposta di concordato preventivo non può, pertanto dipendere dalla disponibilità della maggioranza dei creditori, in quanto un termine per l’esecuzione del concordato manifestamente irragionevole non assicurerebbe il soddisfacimento della causa del concordato e giustificherebbe quindi il sindacato del Tribunale” e “la durata massima della procedura concorsuale indicata in sei anni dalla c.d. Legge Pinto può costituire il parametro di riferimento per l’individuazione del termine massimo previsto dal piano per l’adempimento del concordato preventivo”.
A sostegno di tali tesi, effettivamente, nella prassi si è talvolta arrivati a sostenere che, per i concordati in continuità, possano considerarsi ammissibili solo i piani con orizzonte temporale non superiore ai 5 anni. Ciò, peraltro, senza nessun diretto appiglio normativo: non c’è, infatti, una disposizione di legge che precisi la durata massima per l’adempimento della proposta.
La questione è stata più volte esaminata dalla corti di merito e, fortunatamente, non sono mancate neppure pronunzie meno in contrasto con le fondamentali esigenze aziendalistiche.
Ad esempio, in una propria decisione del 30 aprile 2014 (sempre su www.ilcaso.it) Tribunale di Prato ha ritenuto che il Giudice chiamato a decidere al riguardo deve “formulare queste valutazioni in base al caso concreto e alle caratteristiche del piano proposto; il suo controllo dev’essere effettuato in termini di ragionevolezza del rischio assunto e di probabilità di successo, non di certezza del risultato”.
Poi, il Tribunale di Torre Annunziata, con decisione del 29 Luglio 2016, ha ammesso una procedura con piano di durata novennale, statuendo giustamente che “in mancanza di limiti temporali normativamente previsti, la durata complessiva del piano di concordato è sottoposta ad una valutazione di ragionevolezza, che deve essere operata alla luce della singola proposta, della tipologia di attività imprenditoriale e delle garanzie e controlli previsti in favore dei creditori”.
E così anche (a chi scrive la circostanza risulta personalmente) il Tribunale di Napoli Nord, dopo aver esaminato analoga questione in modo approfondito, con decisione del 25 luglio 2019, ha ammesso alla procedura concordataria una società che ha presentato un piano di durata novennale.
Ebbene, con la Circolare n. 34 del 29 dicembre 2020, l’Agenzia delle Entrate, aggiunge un importante contributo sull’argomento, chiarendo che la questione “deve essere affrontata senza affidarsi a schemi generalizzati, prestando, invece, la massima attenzione alle caratteristiche specifiche di ciascuna fattispecie”.
Secondo l’Agenzia delle Entrate, infatti, “se è vero che un maggiore orizzonte temporale incrementa l’aleatorietà della stima (…), in taluni casi, grazie alle particolari caratteristiche del patrimonio aziendale e/o delle relazioni commerciali del contribuente, alla natura dell’attività imprenditoriale o al regime di concorrenza nel quale la stessa viene svolta, potrebbero manifestarsi condizioni idonee a garantire l’affidabilità delle proiezioni anche rispetto a lassi temporali medio lunghi”.
Così, nella stessa Circolare viene osservato che “la varietà delle situazioni realizzabili fa sì che nessuna tempistica debba, aprioristicamente, ritenersi accettabile o inaccettabile, poiché elementi quali le peculiarità della fattispecie concreta, l’entità del debito, l’economicità dell’offerta, l’expertise e il know how posseduto dall’impresa nel settore di appartenenza e le aspettative di sviluppo del mercato, potrebbero consentire di valutare positivamente anche proposte di pagamento dilazionato basate su archi temporali particolarmente dilatati”.
Le indicazioni che perciò l’Agenzia delle Entrate arriva a fornire ai propri Uffici sulle tematiche qui in disanima rappresentano davvero linee di indirizzo che si auspica prassi e giurisprudenza vogliano seguire. Tanto a maggior ragione nel periodo di planetaria crisi economica che oggi si vive ed in quello “post Covid 19” che, si spera, sia in imminente arrivo.
Il fattore tempo è infatti driver essenziale dei programmi di rilancio e il suo razionale utilizzo presupposto di base per “assorbire” le perdite maturate nel periodo della pandemia. Occorre cioè evitare che le imprese si ritrovino con “il fiato corto” già in fase in avvio dei progetti di risanamento.
Sicché le dette indicazioni, che di seguito si riportano, non possono che condividersi:
“Nell’effettuare l’esame delle proposte ricevute, gli Uffici focalizzeranno l’attenzione sulla ragionevolezza delle ipotesi che maggiormente incidono sulle probabilità di successo del progetto di risanamento portato alla propria attenzione. La finalità che in questa sede gli Uffici sono chiamati a perseguire, infatti, è quella di concludere un accordo concretamente gestibile da parte del debitore. Pertanto, occorre evitare di subordinare il raggiungimento dell’intesa al rispetto di tempistiche e modalità di adempimento particolarmente onerose per il contribuente, che, alla luce della situazione economico-finanziaria in cui versa l’impresa, potrebbero risultare, di fatto, impossibili da rispettare. A tal fine si terrà conto degli ordinari flussi finanziari in entrata che l’impresa in crisi potrebbe assicurare, evitando di perseguire benefici del tutto marginali per l’erario.
Gli Uffici, dunque, in sede di valutazione del lasso temporale proposto per l’assolvimento del debito tributario, riserveranno precipua attenzione al grado di attendibilità che riveste il piano di pagamento, anche qualora lo stesso preveda, ad esempio, una rateizzazione distribuita in dieci esercizi (limite ordinario di cui all’art. 19 del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 602, per la rateizzazione del debito tributario).
Analoghe considerazioni possono essere svolte in riferimento alla percentuale di ristoro offerta per il pagamento del debito tributario. Infatti, non può ritenersi sussistente una percentuale al di sopra o al di sotto della quale la proposta di concordato debba ritenersi certamente meritevole o immeritevole di accoglimento, purché la proposta di soddisfacimento non sia «… inferiore a quella realizzabile, in ragione della collocazione preferenziale, sul ricavato in caso di liquidazione, avuto riguardo al valore di mercato attribuibile ai beni o ai diritti sui quali sussiste la causa di prelazione …».”
Napoli, 20 gennaio 2021
Francesco Palmieri