Con l’ordinanza richiamata nel titolo (Pres. Ferro, Est. Dongiacomo), la Cassazione ha fornito una serie di elementi sostanziali, chiarificatori di molteplici aspetti disciplinati dall’art. 147 comma 5 L. Fall., riguardo l’ambito applicativo dell’istituto dell’estensione di fallimento disciplinato dal richiamato articolo della legge fallimentare, sul perimetro stesso della c.d. supersocietà di fatto, e sull’autonomo accertamento dello stato di insolvenza della supersocietà di fatto (con conseguente individuazione del soggetto su cui grava l’onere probatorio).
- Esposizione sintetica dei fatti di causa
In seguito alla dichiarazione di fallimento di una società di capitali a responsabilità limitata da parte del Tribunale di Messina, il curatore proponeva ricorso di fallimento della supersocietà di fatto, come dallo stesso ipotizzata, corrente tra la fallita, un imprenditore individuale e un’altra società di capitali (Srls), ritenuta socio di fatto della supersocietà.
Il Tribunale, valutata l’ingerenza gestoria dell’imprenditore individuale nelle due società di capitali, nonché la “confusione contabile e gestoria”, riteneva accertato il vincolo societario di fatto, procedendo alla declaratoria di insolvenza dei soggetti coinvolti.
A definizione del reclamo ex art. 18 L. Fall. la Corte d’Appello di Messina, in riforma delle sentenze ex art. 6 L. Fall. impugnate, revocava il fallimento della supersocietà di fatto, dell’imprenditore individuale e dell’altra società di capitali (Srls), ritenendo che la vicenda andasse inquadrata nella “mera amministrazione di fatto” da parte dell’imprenditore individuale o nella holding personale di fatto, non ritendendo sufficientemente provati gli elementi costitutivi la supersocietà di fatto, quali l’affectio societatis, il patrimonio, la struttura organizzativa e le attività comuni, preordinate e coordinate al raggiungimento del medesimo scopo sociale. I giudici di seconde cure ritenevano inoltre non provato lo stato di insolvenza della supersocietà di fatto, quale elemento autonomo rispetto all’insolvenza dei presunti soci della stessa.
Avverso la sentenza n. 111/2023 della Corte d’Appello di Messina (dep. il 15.2.2023) proponevano dunque ricorso di legittimità le procedure fallimentari dichiarate in estensione e la procedura fallimentare “originaria” della srl.
La presente esposizione si concentra dunque sull’ordinanza emessa dalla Corte di Cassazione, pubblicata il 4 gennaio 2024, esaminando nello specifico l’accoglimento del quarto motivo di impugnazione, con il quale le ricorrenti “lamentando la violazione e la falsa applicazione degli artt. 2247, 2297, 2497, 2727 c.c. e dell’art. 147, comma 5°, l.fall., in relazione all’art. 360 n. 3 c.p.c., ha censurato la sentenza impugnata nella parte in cui la corte d’appello, pur avendo accertato una situazione di confusione patrimoniale e di commistione gestoria fra diverse entità (persone fisiche e società) esercenti la medesima attività commerciale, ha escluso la sussistenza della dedotta super-società di fatto omettendo, tuttavia, di considerare che: – la società di fatto nasce dai comportamenti concludenti dei soci reiterati nel tempo e orientati all’esercizio dell’attività comune, senza che sia a tal fine necessario un preciso “atto di volontà” con cui le parti aderiscono al contratto sociale; – la “collaborazione di tutti e di ciascuno dei soci all’impresa comune” può essere ben costituita anche da un atteggiamento di mera tolleranza e inerzia, da parte degli amministratori legalmente nominati delle società socie, rispetto all’esercizio di fatto (o meglio all’usurpazione) dei poteri gestori da parte del terzo interessato al risultato comune (nella specie, quale titolare e concedente formale dell’azienda data in affitto, nel contempo esercente l’attività trasferita in collaborazione con i primi) poiché proprio questa condotta consente di configurare una organizzazione comune e reale fra i soggetti coinvolti, apprezzata e riconosciuta come tale anche dai terzi, che si sovrappone alla realtà giuridica formale e pubblicata dal registro imprese; – la formazione del “fondo comune” può essere desunta dalla accertata situazione di totale confusione patrimoniale e commistione gestoria fra le entità (persone fisiche e società di capitali) esercenti la medesima attività commerciale di gestione dei rami d’azienda (trattoria, bar pasticceria e pub) in titolarità di S.”
- Fattispecie normativa
Con la riforma del diritto societario il legislatore ha espressamente previsto che una società di capitali possa assumere la qualità di socio illimitatamente responsabile in una società in nome collettivo, pur se irregolare (art. 2297 c.c), come le società di fatto (Società di persone non costituita per atto scritto, priva di formalità e pubblicità, pur in effettivo svolgimento dell’attività economica (facta concludentia), regolata dalle norme in materia di Snc irregolare, con conseguente responsabilità personale e illimitata dei relativi soci per le obbligazioni sociali, soggetta a procedura fallimentare in caso di esercizio di attività commerciale, con conseguente fallimento in estensione dei soci), regolata dalle norme in materia di s.n.c. irregolare, dunque con previsione di responsabilità personale e illimitata dei suoi soci.
In ideale prosecuzione l’art. 147 L. Fall. stabilisce che “La sentenza che dichiara il fallimento di una società appartenente ad uno dei tipi regolati nei capi III, IV e VI del titolo V del libro quinto del codice civile, produce anche il fallimento dei soci, pur se non persone fisiche, illimitatamente responsabili (comma 1). […] Se dopo la dichiarazione di fallimento della società risulta l’esistenza di altri soci illimitatamente responsabili, il tribunale, su istanza del curatore, di un creditore, di un socio fallito, dichiara il fallimento dei medesimi (comma 4 – ndr “successiva emersione di soci occulti in una società palese”c.d. fallimento discensionale). Allo stesso modo si procede, qualora dopo la dichiarazione di fallimento di un imprenditore individuale risulti che l’impresa è riferibile ad una società di cui il fallito è socio illimitatamente responsabile. (comma 5 – “successiva emersione di una società, dapprima occulta e distinta dal soggetto già dichiarato fallito “c.d. fallimento ascensionale”).
Con l’ordinanza in argomento, la Suprema Corte, aderendo ad una interpretazione estensiva dell’art. 147 c. 5 L. Fall., maggioritaria in giurisprudenza e consolidata anche da una pronuncia della Consulta (Sentenza 255/2017 – Pres. GROSSI Red. MORELLI – Dep,. del 06/12/2017 Pubb. in G. U. 13/12/2017)[1], determina l’ambito applicativo dell’estensione di fallimento prevista dal testo innanzi riportato, anche all’eventualità in cui il “socio inizialmente fallito” sia una società di capitali (quindi non esclusivamente nel caso di fallimento originario di un “imprenditore individuale”) , partecipante, con altre società di capitali o persone fisiche, ad una società di persone, nel caso di specie irregolare.
- Motivi di interesse e rilevanza della pronuncia in argomento
Con l’accoglimento del quarto motivo di impugnazione, la Suprema Corte ha ritenuto che, la Corte d’Appello una volta accertata la “confusione gestionale” dei rami d’azienda da parte dei soggetti coinvolti (imprenditore individuale e società di capitali, soci della supersocietà di fatto), rimasti nella disponibilità dell’imprenditore individuale anche se formalmente gestiti in tempi diversi da soggetti diversi (la srl e la srls), dietro il velo formale di contratti di affitto d’azienda, ritenendo tuttavia che tali fatti “depongono più che altro per l’esistenza di un’amministrazione di fatto della s.r.l. da parte di S., concedente i rami di azienda presi in affitto dalla s.r.l. (ndr fallita originaria) prima e poi dalla s.r.l.s. (ndr fallita in estensione) …” o, al più, “di una holding di fatto nei cui confronti il curatore può agire in responsabilità e che può essere dichiarata autonomamente fallita …” sul rilievo che gli stessi “non consentono con sufficiente grado di certezza di ritenere provata … la sussistenza della società di fatto costituita per la gestione in comune dell’impresa … non essendovi dimostrazione reale di un fondo sociale appartenente alla super-società …” “né dell’esistenza di un vincolo di collaborazione tra i tre soggetti anzidetti, che vada oltre la mera affectio familiaris”, abbia finito per “escludere la sussistenza dell’invocato vincolo societario senza considerare, per un verso, che, come detto, la società di fatto tra una o più persone fisiche ed una o più società non è completamente esclusa, almeno nella sua fase costitutiva, dalla successiva utilizzazione delle stesse “come schermo” per consentire a chi, per un motivo o per l’altro, le controlla di svolgere (o di continuare a svolgere) la propria attività d’impresa, e, per altro verso, che la sussistenza della società di fatto, se non richiede, semplicemente, che le società di capitali che ne fanno parte abbiano, direttamente o indirettamente, (come nella specie) gli stessi soci e gli stessi amministratori (trattandosi di fatti compatibili anche con il mero esercizio di un’attività di direzione e coordinamento sulle stesse), può essere nondimeno affermata quando, almeno nella fase costitutiva (e a prescindere dalle forme giuridiche che i relativi atti abbiano assunto), sussistano (o, comunque, siano stati percepiti come tali dai terzi) i seguenti fatti costitutivi (dei quali, però, la corte d’appello ha omesso l’esame effettivo, così cadendo nel vizio della falsa applicazione delle norme previste dagli artt. 2247 c.c. e 147, comma 5°, l.fall.), e cioè che: a) le stesse società, al pari degli altri compartecipi (persone fisiche o giuridiche, come altre società), abbiano conferito, con decisione che (quale mero atto gestorio proprio dell’organo amministrativo: Cass. n. 1095 del 2016) le società partecipi possono ben assumere attraverso un amministratore di fatto e poi manifestare e dunque condividere a mezzo dei rispettivi organi rappresentativi, in un fondo comune, in termini (di volta in volta) di attribuzione della proprietà (art. 2254, comma 1°, c.c.) o del godimento di determinati beni (artt. 2254, comma 2°, e 2281 c.c.) ovvero di esecuzione della propria opera (art. 2263, comma 2°, c.c.), tutto “quanto è necessario per il conseguimento dell’oggetto sociale” (art. 2253, comma 2°, c.c.), se del caso in termini di rinuncia ai propri diritti (come quello di rivalsa in caso di garanzia personale ovvero al compenso per l’attività svolta), allo scopo di trarne, almeno programmaticamente, un vantaggio economico; b) i risultati patrimoniali (positivi e negativi) dell’attività svolta attraverso il fondo formato dai predetti apporti ricadono, in termini di incremento o decremento del valore degli stessi apporti eseguiti, su tutti i partecipi, secondo le regole dagli stessi (anche tacitamente) fissate (e, come visto, anche in proporzione differente rispetto all’entità degli apporti) e, se del caso, altrettanto tacitamente, modificate (con l’unica particolarità che le operazioni sono compiute da chi agisce non già̀ in nome della compagine sociale ma in nome proprio: Cass. n. 14365 del 2021; Cass. n. 17925 del 2016; Cass. n. 366 del 1998, la quale ha evidenziato come, in tale ipotesi, “in deroga ai principi desumibili dagli artt. 1388, 1705 e 1706 c.c., la responsabilità verso i terzi, per il compimento di tali operazioni” grava anche “su coloro nel cui interesse esse siano state compiute senza tuttavia spenderne il nome”; Cass. n. 1106 del 1995; nello stesso modo in cui “l’imputazione sostanziale di atti – e di atti qualificati siccome d’impresa collettiva – ad un soggetto non formalmente e realmente costituito … poggia su una effettività di condotte riconosciute all’esterno invece quali tipiche del contratto di società, dunque tali, se così percepite dai terzi”: Cass. n. 12120 del 2016, in motiv.).
Ciò che per lo più capita ove risulti: – lo svolgimento da parte dei compartecipi (società e/o persone fisiche) della stessa attività facente capo all’imprenditore o alla società inizialmente fallita; – la comunanza tra i diversi compartecipi dell’organizzazione aziendale a tale fine utilizzata, come i locali, le insegne, le utenze, con i relativi dipendenti, in ragione dell’esecuzione, da parte di ciascuno di essi, di apporti patrimonialmente rilevanti in favore della stessa, come beni aziendali, somme di denaro, prestazioni di servizi e rinunce a crediti maturati nei suoi confronti; – la distribuzione in favore dei partecipi dei benefici economici conseguenti (non necessariamente, come detto, in proporzione rispetto al valore degli apporti), in termini di percezione di somme di denaro non corrispondenti alle prestazioni d’opera svolte ovvero di mancato versamento di somme giuridicamente dovute, all’esercizio in comune dell’impresa.”
In conclusione la Suprema Corte si esprime su un aspetto di natura processuale, ovvero sull’autonomo procedimento di accertamento dello stato di insolvenza che investe la supersocietà di fatto, “anche eventualmente muovendo – quale fatto indiziante – dalla rilevazione dell’insolvenza di uno o più soci, ovvero del socio cui era inizialmente imputabile l’attività economica, ma senza alcuna automatica traslazione ovvero dogmatico esaurimento in esse della prova richiesta, come per tutti gli insolventi fallibili, dall’art. 5 legge fall.”
In definitiva, l’accertamento dello stato di insolvenza della supersocietà di fatto, nell’ambito del procedimento ex art. 147 c. 5 L. Fall., rappresenta un autonomo e indefettibile elemento di analisi, per l’accertamento del quale ci si può senz’altro rifare alla prova indiziaria fornita dallo stato di insolvenza di suo socio, ferma la possibilità per la società irregolare di dimostrare (con una discutibile inversione dell’onere della prova) l’insussistenza del proprio stato di insolvenza, ovvero che le obbligazioni assunte in nome proprio dal socio fallito, non rappresentino in realtà debiti della società.
§ § §
Con le motivazioni innanzi esposte (§ 4.7 e 4.8 dell’Ordinanza- pagg. da 21 a 24), che rappresentano il vero elemento innovativo della pronuncia in argomento, i giudici di legittimità hanno inteso definire gli elementi costitutivi minimi della supersocietà di fatto, anche in presenza di un utilizzo abusivo della figura societaria (anche occulta) da parte di uno o più soggetti (imprenditore individuale e società di capitali) che ne mantengono il controllo nel proprio esclusivo interesse.
Tale principio, cui si è attenuta in sentenza n. 111/2023 la Corte d’Appello di Messina, aveva costituito, in precedenti pronunce, elemento contrario alla configurabilità di supersocietà di fatto (Cass. Civ. n. 20552 del 2022, Cass. Civ. n. 7903 del 2020, Cass. Civ. n. 10507 del 2016; Cass. Civ. n. 12120 del 2016), rappresentando semmai indice dell’esistenza di una holding di fatto.
Nell’ordinanza in argomento, i giudici di legittimità affermano che l’elemento dell’abuso della forma societaria non può costituire elemento sufficiente ad escludere la configurabilità della supersocietà, qualora esso subentri o si innesti in un, realmente sussistente, vincolo societario (affectio societatis), anche solo iniziale e a maggior ragione se occulto (dunque in grado di generare nei terzi la convinzione della sua esistenza, anche se non formalizzata), a nulla rilevando la circostanza di una partecipazione agli utili e alle perdite in misura non conforme o proporzionale ai conferimenti.
Luca Formicuzzi
[1] Corte Costituzionale, pronuncia del 6 dicembre 2017 n. 255, “Ha condivisibilmente osservato, infatti, come al riferimento all’«imprenditore individuale» vada, ratione temporis, attribuita «valenza meramente indicativa dello “stato dell’arte” dell’epoca in cui la norma è stata concepita, che non può essere di ostacolo ad una sua interpretazione estensiva che, tenuto conto del mutato contesto nel quale essa deve attualmente trovare applicazione, ne adegui la portata in senso evolutivo, includendovi fattispecie non ancora prospettabili alla data della sua emanazione». Ed ha sottolineato come, a contrario, «un’interpretazione dell’art. 147, quinto comma, l. fall. che conducesse all’affermazione dell’applicabilità della norma al solo caso (di fallimento dell’imprenditore individuale) in essa espressamente considerato, risulterebbe in contrasto col principio di uguaglianza sancito dall’art. 3 Cost.» (sentenza n. 10507 del 2016 e, sulla stessa linea, sentenza 13 giugno 2016, n.12120).”.