La Corte di Cassazione – Sez. quinta, con la sentenza n. 13016 del 28/03/2024, si è pronunciata per la prima volta sul tema della continuità tra la fattispecie delittuosa di cui all’art. 236 bis L.F. (legge fallimentare) e quella di cui all’art. 342 CCII (Codice della Crisi d’Impresa e dell’Insolvenza) in materia di false attestazioni e relazioni.
Si ricorderà che con l’introduzione del codice della crisi le norme penalistiche sono state riformulate per conformarle ai nuovi istituti previsti nell’ambito delle procedure concorsuali.
Segnatamente, l’art. 236-bis L.F. (Falso in attestazioni e relazioni) così recita:
«1. Il professionista che nelle relazioni o attestazioni di cui agli articoli 67, terzo comma, lettera d), 161, terzo comma, 182-bis, 182-quinquies, 1 82-septies e 186-bis espone informazioni false ovvero omette di riferire informazioni rilevanti, è punito con la reclusione da due a cinque anni e con la multa da 50.000 a 100.000 euro.
2. Se il fatto è commesso al fine di conseguire un ingiusto profitto per sé o per altri, la pena è aumentata.
3. Se dal fatto consegue un danno per i creditori la pena è aumentata fino alla metà»;
mentre l’art. 342 CCII dispone che:
« 1. Il professionista che nelle relazioni o attestazioni di cui agli articoli 56 comma 4, 57, comma 4, 58 commi 1 e 2, 62, comma 2, lettera d), 87, commi 2 e 3, 88, commi 1 e 2, 90, comma 5, 100, commi 1 e 2, espone informazioni false ovvero omette di riferire informazioni rilevanti in ordine alla veridicità dei dati contenuti nel piano o nei documenti ad esso allegati, è punito con la reclusione da due a cinque anni e con la multa da 50.000 a 100.000 euro.
2. Se il fatto è commesso al fine di conseguire un ingiusto profitto per sè o per altri, la pena è aumentata.
3. Se dal fatto consegue un danno per i creditori la pena è aumentata fino alla metà.»»
Nella vicenda di interesse l’imputato – nella qualità di professionista attestatore – risultava aver esposto informazioni false o comunque aver omesso di riferire informazioni rilevanti nella relazione di cui all’art. 161 comma 3 l.fall., allegata al ricorso per l’ammissione al concordato preventivo. In particolare, lo stesso risultava aver indicato un rilevante apporto di nuova finanza – pari a euro 200.000,00 – senza alcuna previa verifica dell’attendibilità e fattibilità dell’apporto, anche in ordine alle tempistiche e alle modalità di assolvimento dell’obbligo, tenuto conto anche che si trattava di prossimo congiunto del liquidatore (apporto finanziario infatti mai avvenuto). L’imputato, nella relazione di attestazione, si limitava a dare atto, nello schema riepilogativo dell’atto concordatario, dell’esistenza di un apporto di terzi di presunto realizzo di euro 200.000,00.
In prima battuta interveniva la condanna all’esito del giudizio abbreviato; successivamente l’imputato veniva assolto in appello per intervenuta prescrizione, con condanna al risarcimento delle parti civili.
Veniva quindi proposto ricorso per cassazione.
Il ricorso, fondato su un unico motivo, sosteneva l’intervenuta abolitio criminis parziale con riferimento alla condotta in contestazione a seguito dell’introduzione dell’art. 342 CCII.
La nuova formulazione avrebbe, secondo il ricorrente, comportato un restringimento della fattispecie penalmente rilevante alle sole false informazioni rilevanti in ordine alla veridicità dei dati contenuti nel piano o nei documenti allegati (“veridicità dei dati aziendali”), con implicita esclusione, dall’ambito di applicazione della fattispecie criminosa, delle attività del professionista relative alla valutazione di “fattibilità economica” del piano presentato dal debitore. Decisivo, in tal senso, l’utilizzo del termine “dati”, che sarebbe incompatibile con il concetto di valutazione.
A detta invece della Quinta Sezione penale della Corte di Cassazione, tale interpretazione, si basa su una nozione eccessivamente restrittiva del termine “dati” i quali, anche «in senso stretto intesi, sono essi stessi il risultato di attività intellettuali che, spesso, consistono nella indicazione di grandezze economiche chiamate a esprimere ii valore di negozi giuridici, rapporti contrattuali, beni immateriali, situazioni giuridiche: grandezze nelle quali la componente valutativa è sicuramente presente» .
Inoltre, secondo i giudici della suprema Corte proprio in relazione alla “fattibilità economica” del piano, la novella non avrebbe determinato alcun effetto abrogativo, essendosi il legislatore delegato limitato a riformulare la norma con l’inserimento di un inciso chiarificatore «che non lasci dubbi circa la non applicabilità di essa alla valutazione prognostica del professionista, in senso stretto intesa. Valutazione, che, tuttavia, non era riconducibile alla fattispecie criminosa neppure sotto la vigenza dell’art. 236-bis legge fall. (correttamente interpretato).».
La nuova norma, dunque, non avrebbe determinato effetti abrogativi parziali e, in particolare, «non avrebbe reso penalmente irrilevanti le attività del professionista relative alla correttezza e alla compiutezza della base informativa nonché alla correttezza dei metodi e dei criteri valutativi impiegati per effettuare la valutazione prognostica circa la “fattibilità economica” del piano».
In questo senso deporrebbe la lettura dell’art. 2, comma 1, lett. a, della legge delega, infatti, che ha previsto che il governo si limitasse a «sostituire il termine fallimento e i suoi derivati con l’espressione liquidazione giudiziale, adeguando dal punto di vista lessicale anche le relative disposizioni penali, ferma restando la continuità delle fattispecie criminose».
Per questi motivi, quando come nella fattispecie, non risulta che il professionista abbia effettuato alcuna verifica sull’attendibilità e la fattibilità del contributo di nuova finanza, né compiuto accertamenti su tempi e modi con i quali sarebbe stato assolto l’obbligo, siffatta condotta continua ad essere punibile, integrando gli estremi del reato di cui all’art. 342 CCII.
Danilo Aita
Roberto Patauner