La recente sentenza dell’ 11 gennaio 2023, n. 524, della Corte di Cassazione (Presidente dott.ssa Rosa Maria Di Virgilio, Relatore dott. Giuseppe Dongiacomo) fa chiarezza su due questioni di particolare importanza in tema revocatoria ordinaria ex art. 2901 c.c. esercitata ai sensi dell’art. 66 della legge fallimentare dal curatore, e non solo.
La prima riguarda l’onere della prova del pregiudizio arrecato ai creditori fallimentari dall’atto oggetto dell’azione ripristinatoria. Sul punto la Suprema Corte si è così espressa:
«4.5. Il curatore del fallimento che intenda promuovere l’azione revocatoria ordinaria, per dimostrare la sussistenza dell’eventus damni, ha, dunque, l’onere di provare tanto la preesistenza di ragioni creditorie rispetto al compimento dell’atto pregiudizievole, quanto il mutamento qualitativo o quantitativo che il patrimonio del debitore ha subito per effetto di tale atto: e solo se dalla valutazione complessiva e rigorosa di questi elementi dovesse emergere che, per effetto dell’atto pregiudizievole, sia divenuta, in ragione del valore o della qualità del patrimonio residuo, oggettivamente più incerta o difficoltosa l’esazione dei crediti anteriori al suo compimento, potrà ritenersi dimostrata la sussistenza dell’eventus damni (cfr. Cass. n. 26331 del 2008; Cass. n. 19515 del 2019).
4.6. In siffatta evenienza, invero, non può trovare applicazione la regola generale prevista per l’azione pauliana secondo cui, al contrario, a fronte dell’allegazione, da parte del creditore, delle circostanze che integrano l’eventus damni, incombe su chi ne eccepisca la mancanza l’onere di dimostrare che il patrimonio residuo è sufficiente a soddisfare le ragioni dell’attore (cfr. Cass. n. 21492 del 2011; Cass. n. 19963 del 2005). E ciò in quanto, da un lato, il curatore rappresenta contemporaneamente sia la massa dei creditori sia il debitore fallito e, dall’altro lato, tale onere, in ossequio al principio della vicinanza della prova, non può essere posto a carico del convenuto, beneficiario dell’atto impugnato, che non è tenuto a conoscere l’effettiva situazione patrimoniale del suo dante causa (Cass. n. 8931 del 2013; Cass. n. 1902 del 2015; Cass. n. 16221 del 2019).
4.7. E’, dunque, il curatore ad avere l’onere di provare che il patrimonio residuo del debitore poi fallito, a seguito del compimento dell’atto e delle modifiche quantitative o qualitative ad esso apportate, era di natura o dimensione tali da rendere impossibile ovvero più difficile il soddisfacimento dei creditori preesistenti (cfr. Cass. n. 9565 del 2018; Cass. n. 2336 del 2018; Cass. n. 8931 del 2013; più di recente, Cass. n. 36033 del 2021; Cass. n. 1489 del 2022, in motiv.; in precedenza, Cass. n. 9092 del 1998; conf., Cass. n. 26331 del 2008).»
La seconda questione su cui l’importante decisione si sofferma riguarda la natura “di debito” del trattamento di fine rapporto. Sull’argomento i giudici di legittimità, con l’ineccepibile decisione in commento, si sono così pronunciati:
«4.10. Il credito al trattamento di fine rapporto, se, in effetti, è esigibile soltanto con la cessazione del rapporto di lavoro subordinato, matura (ed è, come tale, certo nell’an e liquido nel quantum), tuttavia, con il progressivo svolgimento del rapporto stesso. La pretesa creditoria avente ad oggetto il suo pagamento, pertanto, ancorché inesigibile fino alla formale cessazione del rapporto di lavoro, sorge, in capo al lavoratore dipendente (ed è, quindi, giuridicamente esistente), in ragione della quota maturata, man mano che il rapporto di lavoro si svolge. Il trattamento di fine rapporto costituisce, in definitiva, a tutti gli effetti, l’oggetto di un diritto di credito certo e liquido del quale il dipendente consegue la titolarità già nel corso del rapporto di lavoro subordinato sebbene la sua esigibilità sia subordinata alla cessazione del rapporto stesso (cfr., per tale soluzione, ai più diversi fini, Cass. n. 26383 del 2022; Cass. n. 6117 del 2019; Cass. n. 19708 del 2018; Cass. n. 11479 del 2013; Cass. n. 19291 del 2011, Cass. n. 19967 del 2005; Cass. n. 1049 del 1998; in senso diff., Cass. n. 3461 del 2015; Cass. n. 11579 del 2014; Cass. n. 11470 del 1997).»
Francesco Palmieri